Ventunozeronovantasette

Federica ha corso la sua prima mezza maratona, la Roma Ostia 2015, e sullo slancio ci ha inviato la lunga cronaca che segue. Tanti di voi hanno affrontato negli anni questa gara, leggendo il pezzo sono sicuro che rivivrete alcune delle emozioni legate a quell’esperienza.

Federica

Ventuno chilometri. Anzi ventuno-virgola-zeronovantasette chilometri. E’ il numero che mi gira in testa da oramai due mesi, ovvero dal giorno in cui ho deciso di iscrivermi alla Roma Ostia. E’ la mia prima mezza maratona. Da quando ho iniziato la mia avventura con la corsa, non mi ero mai decisa a correrne una. E così quel numero, “ventunochilometri”, affolla la mia mente da settimane. Il mio obiettivo da podista in erba è chiaro: arrivare in fondo senza camminare mai. Non mi importa il tempo, mi importa solo arrivare alla fine.

Sono le 9, il sole è alto e forte, il cielo è perfetto, come a dire che non abbiamo scuse: dobbiamo correre. Senza neanche rendermene conto, mi ritrovo a gridare il conto alla rovescia: “NOVE, OTTO,” sono in mezzo a centinaia di persone,sono tante, sono colorate “SETTE SEI CINQUE” sono allenate, sicuramente più di me “QUATTRO TRE” ma io devo solo arrivare, devo solo non camminare mai “DUE” devo solo visualizzare il traguardo, quando mi metteranno la medaglia la collo, devo solo divertirmi “UNO….VIA” Via.

Comincio a correre, metto a terra il primo piede a passo di corsa e penso che per le prossime due ore sarà quello il mio passo naturale, quindi mi ci devo abituare il prima possibile. Mentre percorro i primi metri penso “Ma questa non è la Roma Ostia? Perchè corriamo con la Colombo alle nostre spalle?” E’ facile: perchè i primi 4 chilometri sono un giro per le strade dell’Eur. E scorrono veloci, con tante persone a guardare e tifare per noi. Poi finalmente imbocchiamo la Cristoforo Colombo e penso che non l’avevo mai vista così: una lava colorata di persone che si apprestano a darle nuova vita, per un giorno senza motori a tormentarla. Proprio lì si divide il percorso tra la mezza maratona e la non competitiva di 5 km e con una punta di orgoglio seguo i compagni runner a sinistra pensando che sì, anche io faccio parte dei podisti, anche io sto correndo per vincere.

Fin dalla partenza corre accanto a me un amico di mia mamma, che ho fulminato prima di iniziare con un “Io corro per correre sola. Almeno quando corro, voglio non dover parlare con nessuno e voglio stare da sola” Frase che lascia ben poco spazio ad altre interpretazioni, ma lui, dolcemente, rimane accanto a me e mi cerca con lo sguardo se allungo un po’ il passo e mi perde d’occhio. Decido di modulare il mio passo con il suo, e di correre accanto a lui in silenzio, io con le cuffie nelle orecchie, lui che ascolta solo il rumore delle scarpe e dell’asfalto. Cominciano a scorrere i chilometri,le arance che ci offrono ai punti ristoro sembrano essere la cosa più buona che la mia bocca ricordi di aver mai assaggiato, anche se rischio uno scivolone per colpa delle bucce a terra.

Al 10° chilometro mi rendo conto che sono ancora tranquilla, che sono piena di energie, e mi sfiora l’idea che forse ce la farò. E poi inizia la salita del camping. E’ ripida, è dura. Accorcio la falcata, butto il peso in avanti e la supero indenne. Tutto qui? Poi mi rendo di una cosa: la parte peggiore della salita è la cima. Da quella posizione privilegiata,si può vedere srotolarsi davanti tutta la strada ancora da percorrere. Ho un mancamento: non ce la farò mai. E’ troppa strada. E’ troppa per una macchina, figuriamoci per una persona. E figuriamoci per una persona scarsamente allenata come me. Manca davvero troppo e io non ce la faccio.

L’amico di mia mamma intuisce i miei pensieri e mi dice “Abbiamo superato la salita, siamo a più di metà, è fatta!” Forse ha ragione. Lo vedo chiacchierare con altri corridori e abbasso il volume della musica per ascoltare. Mi piacciono le loro chiacchiere. Mi aiutano a passare quel momento critico. Quello in cui ti crolla tutto e le tue gambe ti dicono che sei matta, che loro non sono fatte per tanto sforzo. Che dovevi allenarle di più, ora non puoi chiedergli tanto. Penso ai miei amici che a quest’ora saranno rientrati a casa da poche ore, che stanno dormendo un sonno caldo e profondo e,invece di invidiarli, mi inorgoglisco un po’. Quanti di loro potranno dire di aver anche solo provato a correre sulla Colombo?

Mi piace vedere le persone intorno a me correre: tutti dicono che la corsa è uno sport solitario, ed è assolutamente vero. Ma solo chi corre può capire perchè è anche uno sport di squadra. Dove la competizione non è quella a cui siamo abituati. La competizione è con te stesso, la competizione è con le tue gambe, con i tuoi polmoni, con la tua testa. Le persone intorno sono la tua squadra,anche se non hanno la maglietta verde di Rifondazione Podistica, ti gridano di non mollare, condividono con te il sudore, le ginocchia a pezzi, i muscoli doloranti. Oppure corrono al tuo fianco in silenzio, ma per il semplice fatto che siano lì, tu non ti senti solo, ti senti trascinare da tanta energia, da tanta voglia di farcela, di arrivare, di vincere la scommessa che hai fatto con te stesso.

Mi ritrovo al 18° chilometro e da lì è terreno sconosciuto: non ho mai corso così tanto. Mai, mai più di 18 chilometri. Ne mancano solo tre, tre chilometri. Adesso è questo il mio numero. Trechilometri. Senza mai camminare. Sono tre chilometri di agonia, comincio a vedere qualcuno con i crampi, qualcuno che cammina. Ma io, a sorpresa, resisto. Al ventesimo chilometro mi raggiunge l’odore della salsedine e il vento che rinfresca la faccia che va a fuoco per il sole e per la fatica. L’amico di mia mamma non lo sa, ma sono già 6 chilometri che ho spento la musica e ascolto quello che dice, ogni tanto gli rispondo. Grazie al suo passo, sono rimasta sempre costante, non ho strafatto quando mi sentivo in forze, non ho mollato quando mi sentivo a pezzi. Io e lui siamo stati una grande squadra che ha visto scorrere sotto le suole metri e metri d’asfalto.

L’ultimo chilometro è il peggiore, le gambe sono due pezzi di marmo, sollevarle è un’agonia, ma continuo, mi dico che non posso mollare adesso. E poi lo vedo. Il traguardo. E’ lì, a pochi metri da me e io, in modo ingenuo, infantile e vagamente esagerato, mi metto a piangere. Non ce la faccio a trattenere le lacrime. Quegli ultimi 200 metri, li faccio piangendo, con grossi goccioloni che si mischiano al sudore, e mi pizzicano sulla faccia. Sono lacrime salate, che sanno di fatica e di orgoglio, di incredulità, di stupore, di vittoria. Supero il traguardo e non posso crederci che mi posso fermare. Posso camminare, posso sdraiarmi. Qualcuno mi copre e io continuo a camminare come uno zombie. E poi, una ragazza bionda mi sorride, mi leva il chip dal pettorale e mi mette al collo una medaglia.

La mia medaglia. La mia prima mezza maratona. I miei primi ventunochilometri. Senza mai camminare, mai, nemmeno per un momento, nemmeno per bere. Ho fatto un tempo ridicolo, il tempo che ci vuole ad arrivare ad Ostia d’estate in macchina quando c’è molto traffico. Ma non importa. Credo che la corsa sia fondamentalmente uno stile di vita, un piacere che chi non corre non può capire. I miei amici continuamente mi chiedono chi me lo fa fare, qual è lo scopo, che senso ha, correre. Nessuno, apparentemente. Il senso è insito nell’azione stessa del correre, del mettere un piede davanti all’altro perchè così abbiamo deciso. Mi chiedo: se il correre non comprendesse la fatica, lo sforzo e il sudore, lo faremmo comunque? Probabilmente no, secondo me. Perchè l’essenza del correre è esattamente nel vincere quella fatica e questa sensazione ci regala il gusto della vita stessa. Almeno, io la penso così. Quindi corro, per il puro gesto di correre. Per superare i miei limiti, per mettermi alla prova, per imparare la disciplina, per dire a me stessa che sì, ce la posso fare. Che quel sole in un cielo senza nuvole non è andato sprecato, l’ho utilizzato per riscaldare il viso e l’anima, per dare energia alle mie gambe. E per imparare che ne vale comunque la pena.

La Cristoforo Colombo non sarà mai più la stessa da oggi, mai più. Di questa 41° Roma Ostia ricorderò sempre l’emozione, l’ansia, le scarpe che si incollano all’asfalto per colpa delle arance, il rumore delle suole che corrono accanto a me, i cartelli in romanaccio che ci regalano una risata inaspettata lungo la strada, gli alti alberi che ci hanno accompagnato per tutto il tragitto, i turisti stranieri che gridano “Come On!”. Ma soprattutto ricorderò quel pianto pieno di soddisfazione con cui mi sono sfogata alla fine. Forse un giorno sorriderò pensando a quanto sono stata ingenua, ma ora non posso far altro che pensare che non sono poi così tante le persone al mondo che posso affermare di aver completato una mezza maratona. Ventunochilometrivirgolazeronovantasette. Percorsi e sentiti, uno dopo l’altro, per il puro e semplice piacere di correre.

2 commenti su “Ventunozeronovantasette”

  1. E brava Federica! L’hai presa pure tu ‘sta malattia! Occhio che poi non si torna indietro!!!!!

  2. Tanti complimenti per l’obbiettivo raggiunto e soprattutto per quanto hai scritto. Corrisponde dettagliatamente a quello che si prova correndo questa gara e correndo in generale. Concordo con Paola: indietro non si torna 😉

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