Roma Ostia 2016

Ben 16 i rifondaroli alla classicissima Roma Ostia 2016, svoltasi in una giornata di sole lievemente velata. In mancanza di meglio Stikka mette in riga tutti (1h 38 e passa), sopravanzando il Gagliardo di una manciata di secondi. Segue il cappelluto Conti, che mazzola ben bene Guerra Minor, poi un Solimini troppo sicuro di sé, Frankie Dalton (nella foto segnaletica), il maratoneta Enricomaria e il perfido Johnnie Dalton, anche lui cappelluto. A un’ora e cinquantaquattro la pimpante Elisabetta, prima tra le donne in mancanza di primedonne, poi il compassato Oliva. Sull’orlo delle due ore la stella dell’est, Vera Pranvera, poi Battilocchi e Camilla Panzieri. Hanno il tempo di farsi la doccia quand’ecco spuntare la dott.ssa Murri, seguita a ruota da Giulia e Maria Vittoria, che però si erano attardate a raccogliere cicoria a bordo strada. Bravi tutti, brave tutte!

 

Il Gagliardo, il conte Conti, Frankie Dalton e l'implacabile Stikka
Il Gagliardo, il conte Conti, Frankie Dalton e l’implacabile Stikka
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E’ questa la mia quarta Romaostia, intrapresa più per scommessa che per altro. Al ritiro dei pettorali per la Miguel, Angelo mi annuncia che un folto gruppo di rifondaroli si sta formando per percorrere, come un sol uomo, i venti kilometri che separano il zozzoso laghetto dell’EUR dalla fetida spiaggia ostiense: il tutto a 5 minuti al km. Capisco che si tratta di un silenzioso guanto di sfida, che io raccatto ancor più silenziosamente. La mia preparazione atletica è raccogliticcia e intermittente, ma in fin dei conti “manca un mese e mezzo”. E’ solo due settimane fa che finalmente realizzo che i 37.00€ di iscrizione last minute potevano essere utilizzati in maniera più costruttiva, e mi costringo mentalmente a passare all’azione. Il primo allenamento è sconfortante, due mezze orette appiccicate con la sputazza di uno stretching sulla cunetta di via della Pisana. Ma non mi perdo d’animo, martedì un’ora, venerdì un’ora e dieci, domenica un’ora e venti, tra le passeggiatrici di via di Brava. Dài, si può fare! Riposo fino a mercoledì, un’ora e mezza sotto la pioggia sferzante. Cinque allenamenti cinque per preparare una mezza maratona. Venerdì ritiro il pettorale, zigzagando tra i venditori di scarpe a molla e pasticche criptodopanti. La sera prima cena da amici, una porzione esagerata di pollo al curry innaffiata di birra, tanto per tenersi leggeri. Il marito di una convitata, podista giudizioso, è rimasto a casa per preservare lo stomaco. Torno a casa e preparo il bagaglio, ora non posso sbagliare più nulla…

Sveglia alle sei, giusto in tempo per una abbondante colazione tre ore prima della partenza. L’orzo solubile in acqua calda facilita l’azione espulsiva. Mi vesto a cipolla, sopra il completino (pettorale applicato rigorosamente la sera prima) maglietta da battaglia, termica e K-way, pantaloni della tuta RP, scarpe e calze con cui correrò. Nella borsa di un orrido fucsia poche cose, un accappatoio in microfibra, mutande, calzini e maglietta di ricambio, mezzo litro d’acqua, patente e 5€: meno si ha, meno si può perdere. Mi sento come gli alpini sul Don, inforco il motorino alle sette e mezza, dopo altre sedute contemplative.

Parcheggio ad Eur Fermi, un nugolo di imbecilli dagli zainetti sgargianti già si avvia lungo la collina del palazzetto. Lascio occhiali e K-way nel bauletto, la giornata è bella, quando tutto manca mi danno un altra pellecchia all’arrivo. Orrore, c’è fila al bar, non è più tempo di fare colazione questa! La salita del palazzetto è snervante, la coda di aspiranti mezzomaratoneti si imbottiglia tra guard rail e balaustra. Davanti a me due vecchietti che sembrano usciti dagli anni cinquanta, incongrui nei loro montoncini, circondati da pezze di mylar. Finalmente sul piazzale, indirizzo un neofita verso la fila dei camion rossi, individuando il mio col numero 14. Rituale spogliarello sullo spartitraffico, rimango in completino e maglietta da battaglia (ricordo dell’inaugurazione di un albergo) e bottiglia da mezzo litro. Finalmente i rifondaroli, un Angelo in ali di plastica, il gagliardo Pierluca, il Conti che conta, un Mazzarelli / Dalton al suo primo cimento. La foto è d’obbligo, presso la lamiera rossa scaldata dal pallido sole. Sono le otto e mezza, i caposquadra urlano ordini perentori: “Chiudere i portelloni!”, i ritardatari si affrettano. E’ l’ora più importante, 45 minuti prima della partenza: mi sgargarozzo il mezzo litro. Idratazione perfetta!

Facciamo finta di scaldarci, in realtà spio un angolo dove scaricare la vescica, più che la tensione. E qui la manifestazione rivela il suo becero volto maschilista: le donne in fila ai cessi chimici, gli uomini a pisciare tra le siepi. Entro nella griglia arancione, quella degli inclassificati di Guantanamo: nonostante vanti un 1 e 36 in tempi storici, l’anno scorso non ho fatto nulla. Mi raggiungono Conti e Dalton Mazzarelli, nella griglia davanti c’è Angelo, oltre ancora Pierluca. Ma è un’altra Onda, quasi fosse un altro Universo. Si studiano le strategie, si parla con nonchalance di operazioni al basso ventre, siamo come mucche al macello, strette ad alitarci addosso, le frasi fatte che escono dagli altoparlanti servono solo ad obnubilarci. La seconda onda è partita, cominciamo a muoverci verso la partenza, mi levo finalmente la maglietta da battaglia e la scaglio in faccia ad una poveretta sulla sinistra. Inquadrata dall’arcone pneumatico, la retroguardia della seconda onda affronta la prima curva e sparisce alla nostra vista: che fine hanno fatto? E se ci fosse una voragine, lì, dietro l’angolo, e non ti puoi fermare perché i sopraggiungenti ti ci spingono dentro?

PAM! I pensieri insensati sono cancellati dallo schiocco dello starter. A furia di “…permesso, permesso…” ci siamo sagacemente ritrovati presso la linea di partenza, la densità del fluido umano di cui facciamo parte si rarefa più che linearmente, Conti ne approfitta per prendere la testa del terzetto, e capisco subito che la consegna dei cinque al kilometro per lui vale come una banconota della repubblica di Weimar. Prudentemente mi associo al Dalton, lo voglio portare sano e salvo all’arrivo, io con lui. Imposto il passo, cinque, massimo quattro e cinquanta. Una passante ci taglia la strada, schiaffeggio con la coscia la pesante borsa, ma non mi abbandono alle recriminazioni. Si passa sotto al grattaTotti, a fianco del velodromo bombardato. Passa il primo quarto di corsa, siamo in perfetto orario, contrariamente alle mie indicazioni Francesco attinge al primo vettovagliamento. Sulla complanare, in senso inverso, corricchiando ci salutano il professor Lucidi e Nonno Nanni, ma potrebbe essere una allucinazione qualsiasi, rimaniamo alquanto freddi, ma cortesi. Sento che il Dalton è confidente, sicuro della mia guida: si alternano salite e discese, le prime affrontate con determinazione, le seconde senza spendere energia, portati a fondovalle dalla semplice forza gravitazionale. Conto le pendenze con un occhio al cronometro, cercando di arrivare al salitone con qualche minuto di riserva. Ho istruito il mio scudiero sulla questione salitone: è vero, la base è ben più bassa della sommità, e fa paura per linearità indifferente, ma è un mostro che non morde, uno spauracchio da affrontare col sorriso sulle labbra. E’ peggio quello che viene dopo, un infido falsopiano, pensi che la fatica sia finita e invece… Ma lì ci sono i vettovagliamenti, i ventisette bicchieri vergini che spettano agli eroi, stringi i denti che poi è tutta discesa! E così facciamo, o almeno così la mia immaginazione mi suggerisce, afferro il bicchiere con la sinistra, un sorso in bocca, sputo senza ingoiare, come una neofita del porno, il resto sulla zucca. Perfetto! Mi volto per congratularmi con Francesco… e non lo vedo… Cerco di correre rimanendo fermo, andare avanti guardando indietro, come l’Angelo della Storia, ma niente, Dalton è stato fagocitato dai marosi umani che mi stanno alle calcagna, ha incontrato la sua ombra, che è stata più veloce di lui.

Sono solo in mezzo alla folla, ma è come se avessi perso un punto di riferimento. Al dodicesimo scocca l’ora esatta, è amaro congratularsi solo con se stesso. Un disperato mi supera col borsone sgargiante sotto braccio, come se stesse ancora rincorrendo il camion. Fisso la linea di mezzeria, alternativamente bianca e grigia. Mesmerizzato, non mi accorgo che la media, per il terzo quarto di gara, cala a 5 e 10 (certificato TDS).

L’ultimo quarto è tutto di mestiere, so esattamente quanti sono cinque, sei km, li so rapportare ai percorsi ameni della villa mia Pamphilii, dove sono solito allenarmi. Dal Bel Respiro all’Aurelia, poi fino al laghetto, il curvone che ritorna al campone, le grottaglie e siamo a tre, il Vascello e siamo a quattro. Nella mia testa sono sui vialetti di brecciolino, nella realtà sull’asfalto pseudo pianeggiante. La corsa richiede le sue vittime, una donna sulla lettiga, la mano sugli occhi, un vecchio stralunato, incartato come trota al forno in un foglio d’oro. Aggiungi acqua, aggiungi un quarto d’arancia, ormai è routine, ormai è noia: arrivo con un minuto di ritardo sulla tabella di marcia.

Nulla da ridire sull’organizzazione, mi riapproprio della borsa sgargiante, ben protetto dal K-way d’ordinanza. Siamo tutti dei puffi che spingono per uscire. Trovo una piazzola per cambiarmi, rimango per un po’ nudo ad asciugarmi, col solo accappatoio di microfibra addosso: fosse qualsiasi altro giorno dell’anno dovrebbero sbattermi dentro per oltraggio. Alla stazione invece, come in ogni giorno dell’anno c’è il delirio: mancano gli spicci, impossibile comprare i biglietti. I più previdenti l’hanno preso in settimana, alcuni addirittura l’anno scorso. Compro tre biglietti per 5€, tutto il mio budget. Scendo a Magliana, disgustato, non ne posso più di racconti di imprese podistiche. Me la faccio a piedi fino al motorino, costeggiando nuvole d’acciaio.

Concludendo, con pochi allenamenti e una condotta di gara attenta, porto a casa 6 punti di criterium. Da un lato sono soddisfatto, dall’altro un po’ annoiato. Il mostro, guardato da due file di pini marziali, brulicante di pixel umani, non fa più paura.

Andy (Andrea) War (Guerra)

 

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